Ma cosa vuol dire partire da sé? Intanto nominare un rovescio della crisi che agisce direttamente sulla vita del corpo per rimettere al centro quest’ultimo. Paura, ansia, depressione, suicidi, aumento della vendita di psico-farmaci sono tutti indici chiari ed inequivocabili di quanto avviene nelle esperienze di molte e molti nell’epoca del no-future per più di una generazione. L’unica possibilità di uscirne è attivare una relazione positiva, costruttiva, mettendo in circolo le proprie esperienze per ovviare alla solitudine, diversamente il corpo mette in scena la rabbia, agisce l’odio persino nelle stesse fazioni, lavora alla scomposizione, alla frattura, al nichilismo distruttivo. Il corpo messo al lavoro è inequivocabilmente un corpo sfruttato.
Il famoso processo di femminilizzazione dei processi produttivi non parla solo di qualche punto percentuale in più, di un gender-gap che si restringe, ma parla anche e soprattutto di un’idea di capitalismo e di una forma di organizzazione del management che utilizzano e strumentalizzano le “attitudini” del femminile (cura, relazionalità, sensualità etc.) per produrre valore, per ammorbidire il capitale. Da questo si esce solo attraverso l’autovalorizzazione di sé e del proprio sapere provando ad affermare qualcosa d’altro. Il corpo è presente anche nelle modalità di messa a punto del Welfare contemporaneo.
Le cosiddette politiche di conciliazione vita-lavoro del piano Sacconi-Carfagna legittimano, di fatto, l’idea secondo cui una donna debba svolgere tre lavori contemporaneamente senza poter scegliere. Ragion per cui la rivendicazione di un diritto al reddito, da una prospettiva femminista, assume a pieno titolo l’assunzione di un progetto politico fondamentale e trasversale a tutti e tutte: all’origine c’è la libertà di scelta. Solo se possiamo scegliere siamo davvero liberi e libere.
Che ne è stato di questo nesso corpo-crisi e di questa libertà il 15 ottobre? Quel giorno c’erano anche le femministe, c’era lo spezzone felice e spiritoso “puta-lesbo-queer” con Pia Covre, Porpora Marcasciano, pezzi di Atlantide, le amiche No-Vat, c’erano le “Eva contro Iva. O la borsa o la vita”, c’erano donne sparse ovunque, le Info-sex di Esc, Lucha y Siesta che svolge un prezioso lavoro con le donne immigrate a Roma, le “diversamente occupate etc.”. Il desiderio, il corpo e la comunicazione c’erano. E poi? Poi niente. Gli unici corpi che hanno preso la scena prepotentemente sono stati, al solito, i corpi “eroici”, il torso nudo e il volto coperto, il petardo, il fuoco, il lacrimogeno e poi, ancora una volta, il nulla e la fatica del dover rivedere tutto, ritessere tutto.
Il corpo nella crisi è anche questo, non v’è dubbio, la disperazione porta con sé questo modo del vivere la piazza e non ha senso puntare il dito contro, agire la delazione, rispolverare le leggi fasciste, tuttavia lo scarto tra un corpo che si manifesta attraverso l’epica negativa e distruttiva e una moltitudine di corpi che provano a “dire” qualcosa con una radicalità diversa è talmente reale da superare, appunto, anche lo stesso linguaggio epico dei “comunicati”.
Comunicare significa praticare e significare la relazione come forma della politica, lo stesso conflitto è una forma di relazione, se si lavora alla scissione tra il sé e la piazza, parlando a nome di altri o giocando a chi è più radicale, si azzittisce quello stesso corpo che parla, nel bene e nel male.
E allora andiamo oltre, riprendiamoci il corpo e la parola nella crisi rimettendo al centro l’esperienza, il desiderio di cambiare le cose, il bisogno di dire la verità sul potere, compreso quello che suo malgrado continua a produrre epiche discorsive ed epiche dell’azione. Non è un problema di violenza e di non violenza, è un problema di desideri che devono trovare uno sbocco oltre la rabbia, cioè oltre il nulla. E’ un problema di relazioni e non di testosterone.