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Il Governo italiano sotto esame dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo report scritto dalle compagne che si battono per l’applicazione della CEDAW (Leggi in pdf) in Italia.

Buona lettura!

Il Governo italiano sotto esame dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite

Siamo arrivate da pochi giorni a New York e già stiamo rifacendo le valigie per tornare in Italia, riabbracciare i nostri cari e rimetterci a lavorare. Non siamo state delle buone turiste per la grande mela, ma sicuramente la nostra presenza come piattaforma “Lavori in corsa: 30 anni CEDAW ” è un elemento di avanzamento per i diritti delle donne in Italia.
Ma che cosa è la CEDAW? È un trattato, uno dei principali delle Nazioni unite, del 1979, sottoscritto da quasi tutti i Paesi del mondo, per assicurare l’applicazione e il pieno godimento dei diritti delle donne. L’Italia ha ratificato la Convenzione per l’Eliminazione di ogni discriminazione contro le donne nel 1985. Ogni 4 anni i vari governi devono presentare un rapporto ad un Comitato di 23 membri, esperti da tutto il mondo, per illustrare cosa hanno migliorato, come e quali risultati hanno ottenuto.
Nel corso della 49a sessione alle Nazioni Unite, il 14 luglio a New York, hanno risposto i rappresentanti del governo italiano. Il Comitato CEDAW, ha discusso e chiesto ulteriori informazioni alla delegazione governativa composta da 25 rappresentanti del governo venuti a New York e altrettanti presenti in video conferenza da Roma.
Come voce di controcampo, il comitato ha ricevuto altri 4 rapporti ombra, tra cui quello preparato dalla piattaforma “Lavori in corsa: 30 anni CEDAW”, che mette in luce quanto ancora c’è da fare in Italia per garantire un eguale e soprattutto reale accesso e partecipazione alla politica, al lavoro, alla salute, alla protezione dalla violenza, alla cultura etc.. a tutte le italiane, migranti, seconda generazione, disabili, rom e alle persone con diverso orientamento sessuale.
È la prima volta che la società civile italiana presenta un rapporto ombra e partecipa alla sessione di valutazione, siamo state presenti in tre, due rappresentanti di Fondazione Pangea e una di Giuristi Democratici. Per noi è stata un’emozione non da poco essere lì!
La piattaforma ha fatto uno sforzo enorme, sia economico (dobbiamo ancora pagare i traduttori e non sappiamo come fare) che di impegno e di coordinamento! Abbiamo lavorato per giorni interi facendo nottate, abbiamo tolto tempo ai nostri cari, ai figli, al nostro sonno, pur di dire “noi ci siamo e non siamo contente di come state lavorando si deve fare di più per i diritti e la partecipazione delle donne e non solo”. Il rapporto, elaborato ha raccolto l’adesione di oltre 120 organizzazioni della società civile sia nazionali che locali e centinaia tra di singoli donne e uomini, creando un comune denominatore tra tante realtà molto diverse tra loro.

Il messaggio deve essere chiaro, non stiamo parlando male del ministero pari opportunità, anzi, stiamo parlando dei problemi strutturali nel riconoscere in ogni ministero e al governo, un approccio di genere che sia inserito nelle politiche e nella loro applicazione.

I rappresentanti del governo hanno risposto alle domande del Comitato CEDAW alle Nazioni Unite per quel che hanno potuto ma non sono stati in grado di dare informazioni esaustive in diversi punti critici.
Molte domande sono rimaste inevase.
Avanzare il pretesto dei problemi di budget per giustificare la non applicazione di politiche inclusive delle donne non può essere utilizzata perché molte azioni possono realizzarsi senza intaccare il bilancio, anzi, utilizzare un approccio di genere potrebbe rendere molto più efficiente l’allocazione delle voci della spesa pubblica permettendo l’inclusione delle donne in ogni settore e l’accesso ai loro diritti al pari di quelli degli uomini.
Lo smalto che ha perso l’Italia nei contesti internazionali è anche dovuto al fatto che non si rispetta mai lo standard internazionale richiesto, siamo tra gli ultimi nelle classifiche europee che indicano quanto un paese sta progredendo, e, pur essendo tra i paesi del G8, non siamo di esempio per gli altri perché non applichiamo molte delle direttive europee che ci renderebbero più credibili davanti alle Nazioni Unite.
Un esempio? La l.188/2007 sulla base di una direttiva europea aiutava a contrastare la pratica delle dimissioni in bianco sopratutto per donne in maternità ed è stato uno degli atti abrogati dal governo nel 2008. Noi donne garantiamo il ricambio generazionale per la società italiana, mettendoci il nostro sforzo fisico, psicologico, emotivo perché incinte, e dopo abbiamo una buona possibilità di restare a casa, senza possibilità di scegliere e tornare a lavorare, come il diritto alla salute riproduttiva che si sta sempre più restringendo in tutte le regioni. Quanto ancora dovremo aspettare? In Italia le donne contano oltre il 53% della popolazione, e una democrazia di solito è rappresentata dalla maggioranza. Basterebbe applicare l’art.51 della Costituzione per avere più donne in politica. Siamo noi a laurearci di più e con i migliori voti, ma solo il 14% delle donne è professore ordinario all’università. Poco meno di una donna su due lavora, a sud una su tre, le altre perdono la speranza e non cercano neanche lavoro. Lo sforzo delle politiche va nella direzione di rimettere a casa, ma forse il governo non ha capito che i tempi sono cambiati e che saremo noi, che da secoli sopportiamo le maggiori sofferenze e perdite, che siamo il fattore di sviluppo e progresso per garantire a tutti il pieno godimento della vita.
A questo punto aspettiamo con ansia un incontro con i rappresentanti del governo italiano e di avviare un dialogo costruttivo, per cercare di cambiare, insieme, il presente e il futuro delle donne in Italia. Donne yes we can!

Simona Lanzoni, Barbara Spinelli, Claudia Signoretti per la piattaforma “Lavori in corsa: 30 anni CEDAW”

Aderiscono alla piattaforma Lavori in Corsa – 30 anni CEDAW: Fondazione Pangea Onlus, Giuristi Democratici, ActionAid, ARCS-ARCI Cultura e Sviluppo, IMED- Istituto per il Mediterraneo, Be Free, Fratelli dell’Uomo, Differenza Donna ONG.

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Se non ora quando? Se non noi, chi?

Un intervento di Paola Bora, in merito alle giornate del 9 e 10 Luglio a Siena.
Buona Lettura!!

snoq

Se non ora quando? Foto di Francesca Talozzi

E’ la seconda volta che l’invito promosso da donne – a manifestare il 13 febbraio e a discutere
il 9 e il 10 luglio a Siena – è stato raccolto al di là di ogni aspettativa. Le ragioni di una risposta
così grande sono molto diverse tra di loro, ma c’è ne una che le accomuna: il desiderio e la
necessità avvertiti da donne (e uomini )che un nuovo movimento delle donne occupi la scena
pubblica, per cambiare il paese: perché la crisi della politica e dei partiti è anche la crisi di una
classe dirigente maschile.

Le donne non hanno mai taciuto in questi anni e non hanno mai
smesso di fare; non si tratta di questo. Ma è nuovo (o è tornato) il desiderio e il bisogno di
collegare le tante voci delle donne diverse per generazione, esperienza, culture, i tanti
femminismi. Questo desiderio e questa necessità non possono che realizzarsi attraverso un
patto tra donne diverse su obiettivi condivisi.

Da Pisa per Siena siamo partite in tante, tante
davvero: una presenza forte e motivata di quel Comitato donne 13 febbraio, formatosi per
organizzare la manifestazione: donne delle associazioni, del sindacato, delle istituzioni, della
scuola, studentesse, precarie, donne. Siamo andate per incontrarci con tutte le altre, per
conoscere le varie realtà territoriali e per portare la nostra voce.

Il comitato di Pisa, radicato in associazioni storiche (casa della donna, aied, cgil) ha avuto la fortuna di nascere fin dall’inizio anche dall’incontro con giovani studentesse e precarie cresciute nelle lotte universitarie di
questi anni e ha subito cercato un legame strategico con le organizzazioni delle donne
migranti: un momento indimenticabile dell’otto marzo di quest’anno,(quando prese da furia
irrefrenabile, abbiamo deciso di schizzare da una piazza all’altra di pisa dalle 8 di mattina al
mezzanotte, alternando temi, presenze e corpi) è stato il presidio alle 18 alla stazione: luogo di
transito e di confine si è popolato di corpi di donne migranti che con i loro colori , le loro
voci, le loro canzoni hanno disegnato una mappa possibile di diritti e cittadinanza.

Sono fondamentali i nessi precarietà/lavoro/maternità, nonché la critica della rappresentazione
delle donne al centro della due giorni senese. Dovremo fare del lavoro l’obiettivo centrale e
qualificante andando oltre quella soglia a cui il femminismo si è fermato: quale lavoro? quale
organizzazione e ritmo di lavoro , se a pensarlo sono menti e corpi di donne? la sfida è
riuscire a non subire l’orizzonte della crisi e a immettere desideri e relazioni nella costruzione
di una piattaforma generale per il lavoro per tutte : per le disoccupate, per le precarie, per
occupate che non solo non vogliono perdere il posto di lavoro, ma aspirano a un lavoro di
qualità e di responsabilità, per le donne migranti, che come ci dice il rapporto del centro studi
della Confederazione nazionale dell’artigianato intitolato “L’imprenditoria straniera
in Italia nel 2010 in cifre”, non sono “solo” colf e badanti, le donne immigrate in Italia, ma
anche imprenditrici, prevalentemente nel commercio e nei servizi.

Quanto alla maternità, l’aver cancellato la legge 188/2007 del precedente governo che impediva le dimissioni in
bianco firmate al momento dell’assunzione (da utilizzarsi in caso di gravidanza) è certamente
uno degli atti più odiosi di questo governo che di atti odiosi ne ha fatti più di quanti ne abbia
pensati: è urgente un’azione forte e congiunta di movimento, sindacale e parlamentare perché
si ripristini subito la norma la cui abolizione ha già prodotto , in poco tempo, 800.000
“licenziamenti silenziosi”. Ma quando parliamo di maternità lo scenario che ci si apre davanti
è, inevitabilmente, quello di una maternità autodeterminata consapevole in un contesto di
relazioni affettive e parentali che non è necessariamente più quello della famiglia tradizionale.
Al di là delle discussioni teoriche e politiche che hanno caratterizzato l’infelice stagione dei
DICO, già da molto tempo, intorno a noi, in tutto il mondo, esistono e convivono diversi tipi
di famiglie : ci sono famiglie monogenitore, famiglie adottive, famiglie affidatarie, famiglie
omogenitoriali. famiglie cosiddette “allargate”, famiglie ricostituite da precedenti unioni. I figli
di queste famiglie nel frattempo sono cresciuti e se qualcuno di essi ha avuto dei problemi
sono problemi simili a quelli di molti altri figli. Come recita il titolo di un libro di Elisabeth
Badinter La famille est en desordre, ma si può dire che dal disordine , dalla crisi di
quella famiglia si possono scorgere le linee di una nuova antropologia della parentela? Di
diversi e differenti modi di vivere sessualità, amore, relazioni affettive, genitorialità che non
portano il marchio dell’aberrazione? Allora quando diciamo diritto alla maternità, vogliamo
includere anche diritti riconosciuti per le coppie gay e lesbiche e accesso effettivo ai mezzi per
la procreazione assistita.

Continued…

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Lavori in corsa 30 anni CEDAW

Vi riportiamo la scheda di sintesi del Rapporto Ombra (leggi in pdf) della piattaforma Lavori in Corsa per l’implementazione della CEDAW (la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna) in Italia, che potete sottoscrivere entro il 10/07 mandando una mail all’indirizzo 30YEARSCEDAW@gmail.com

Noi abbiamo aderito. Buona lettura!

SCHEDA DI SINTESI
elaborata dall’avv. Barbara Spinelli

IL RAPPORTO OMBRA SULLA IMPLEMENTAZIONE DELLA CEDAW IN ITALIA


Nel Rapporto Ombra sono evidenziate le principali criticità relative alla diffusione e alla applicazione della Convenzione in Italia, al funzionamento del sistema delle pari opportunità, alla rappresentazione delle donne, alla rappresentanza femminile nella vita pubblica e politica, nazionale ed internazionale, alla cittadinanza, alla scuola, al lavoro, alla previdenza sociale, alla salute, allo sfruttamento lavorativo e sessuale delle donne, alla violenza di genere in tutte le sue forme, dai matrimoni forzati al femminicidio.

Il Rapporto pone particolare attenzione alle discriminazioni subite dalle donne disabili, dalle donne private della libertà personale, dalle donne migranti, Rom e Sinte.
Viene altresì evidenziata la doppia discriminazione subita dalle lesbiche e transessuali, sia in ragione del loro orientamento sessuale sia in quanto di sesso femminile.
Il Rapporto Ombra copre il periodo dal 2005 ad oggi.

Il giudizio complessivo nei confronti dell’attività dei Governi che si sono succeduti in questi anni è critico: poco è stato fatto a livello strutturale per combattere gli stereotipi sessisti e i pregiudizi di genere, che “minano alla base la condizione sociale delle donne, costituiscono un impedimento significativo alla attuazione della Convenzione, e sono all’origine della posizione di svantaggio occupata dalle donne in vari settori, compreso il mercato del lavoro e la vita politica e pubblica” (Raccomandazione n. 25/2005 del Comitato CEDAW all’Italia).
La dipendenza economica e politica del Ministero delle Opportunità dal Presidente del Consiglio ha impedito che in questi anni potessero essere adottate riforme in un’ottica di genere, consentendo sempre il prevalere di altri interessi sulla garanzia di un effettivo godimento dei diritti, in concreto, per le donne.
Ad esempio nel 2007 il disegno di legge “organico” Pollastrini contro la violenza di genere diventò un disegno di legge a tutela della famiglia, rinominato Bindi-Mastella-Pollastrini, per non essere poi mai approvato.
E oggi pure prevalgono gli interessi corporativi nella legge che introduce le quote nei C.d.A, e gli interessi dei partiti nella mancata approvazione delle leggi sulle quote rosa in politica.

Il maschilismo diffuso e l’assenza di una definizione di discriminazione di genere e basata  sull’orientamento sessuale, impedisce inoltre l’estensione a donne e LGBTQI della tutela penale  accordata dalla legge Mancino a tutti gli altri soggetti discriminati per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Questo ostracismo politico all’adozione di misure speciali temporanee per promuovere l’uguaglianza sostanziale delle donne e questa avversione al riconoscimento dei diritti basati sul genere e sull’orientamento sessuale, costituiscono gravi violazioni della Convenzione.

Oltre a queste, le principali violazioni dei diritti delle donne sono state riscontrate in materia di rappresentanza politica e pubblica delle donne, per la mancata attuazione dell’art. 51 Cost., che rende necessario, per garantire la presenza delle donne negli organismi politici locali, il ricorso giurisdizionale; nella salute, per il difficile accesso ai dispositivi anticoncezionali; nel lavoro, per l’inadeguatezza delle politiche governative a favorire la conciliazione vita lavoro e per la totale assenza di politiche mirate a garantire l’accesso al lavoro alle donne disabili e detenute; nei rapporti familiari, perché la violenza domestica non viene tenuta in considerazione nella determinazione dell’affido dei figli; nella protezione delle vittime di violenza di genere, per l’ancora insufficiente preparazione professionale specifica degli operatori e per il basso numero di case-rifugio presenti sul territorio e l’inadeguatezza dei fondi stanziati perché possano funzionare; nell’ancora insufficiente attenzione prestata alle situazioni di sfruttamento lavorativo delle donne migranti e al contrasto del fenomeno sommerso ma drammatico dei matrimoni forzati.

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E ora andiamo a votare per i referendum!

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo, che spiega con chiarezza ed in dettagli le questione su cui siamo chiamat* a votare il 12 e 13 giugno prossimi. Buona lettura!

Privatizzazione dell’acqua, energia nucleare e legittimo impedimento, sono questi i quesiti sui quali dovremo esprimerci al referendum del 12 e 13 giugno.

Il referendum del 12 e 13 giugno è abrogativo, ovvero si vota SI se si è favorevoli all’abrogazione della legge in vigore. I decreti in questione sono già stati approvati dal Parlamento, quindi noi cittadine e cittadini possiamo decidere se far cadere o meno tali leggi. Votando SI, dichiariamo di non essere favorevoli al mantenimento delle leggi su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Al contrario, votando NO, dichiariamo di essere d’accordo con quanto già in essere.

PRIVATIZZAZIONE DELL’ACQUA uno e due

L’acqua non si vende. È lo slogan utilizzato dal Comitato Referendario “2 SI’ per l’Acqua Bene Comune”.
1) Il primo quesito, secondo la denominazione sintetica formulata dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte Suprema di Cassazione, è il seguente:

“Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica. Abrogazione”
«Volete voi che sia abrogato l’art. 23 bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto legge 25 giugno 2008 n.112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n.133, come modificato dall’art.30, comma 26 della legge 23 luglio 2009, n.99 recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia” e dall’art.15 del decreto legge 25 settembre 2009, n.135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea” convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n.166, nel testo risultante a seguito della sentenza n.325 del 2010 della Corte costituzionale?»

Votando SI: si dice NO alla privatizzazione dell’acqua

Si propone l’abrogazione dell’art. 23 bis (dodici commi) della Legge n. 133/2008 , relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica.

La normativa, approvata dal Governo Berlusconi, stabilisce come modalità ordinarie di gestione del servizio idrico l’affidamento a soggetti privati attraverso gara o l’affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, all’interno delle quali il privato sia stato scelto attraverso gara e detenga almeno il 40%.
Così facendo, andrebbero a finire definitivamente sul mercato le gestioni dei 64 ATO Acqua (gestori pubblici delle risorse idriche) che attualmente non hanno proceduto “ad affidamento” o che hanno affidato la gestione del servizio idrico a società a totale capitale pubblico. Non solo, la norma disciplina le società miste collocate in Borsa che, se vorranno mantenere l’affidamento del servizio, dovranno diminuire la quota di capitale pubblico al 40% entro giugno 2013 e al 30% entro il dicembre 2015.

Il secondo quesito, recita: “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma”
«Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?».

Votando SI: si dice NO ai profitti sull’acqua

Si propone l’abrogazione dell’’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell’ “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”.
L’abrogazione parziale è legata alla parte di normativa che permette al gestore del servizio idrico di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza alcun collegamento a logiche di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio stesso. Continued…

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Precario mondo

Un articolo interessante di Ascanio Celestini, da Manifesto, che riportiamo come spunto di analisi. Buona lettura!

Precario mondo

da Manifesto 09/04/2011

Un operatore di call center mi dice che qualche anno fa viveva al centro di Roma, divideva l’affitto con un amico e aveva tempo per suonare e andare in tournée. Si considerava un musicista e utilizzava il call center come sponda. Adesso sta in periferia con tre studenti, lavora full time per sopravvivere, non ha più tempo per suonare e comunque anche la richiesta di concerti è diventata così striminzita che non ci camperebbe. Mi dice «ho quasi cinquant’anni, non ho una famiglia e va a finire che torno a vivere con mia madre». Allora dov’è la precarietà? Non è solo un problema di stage non pagati, di assunzioni a tempo determinato, di lavoro nero e licenziamenti facili. Mille e cinquecento euro al mese basterebbero se una famiglia ne pagasse duecento d’affitto. Basterebbero se una donna e un uomo avessero la certezza di lavorare fino al giorno della pensione. Basterebbero se il figlio di un operaio studiasse in una classe con meno di venti bambini, ricevesse una vera formazione che comprendesse le lingue straniere e la musica, la storia contemporanea e il teatro… Basterebbero se quella famiglia avesse attorno una comunità che la sostiene, un servizio sanitario che la cura quando sta male. E invece l’operaio che pensava di essere assunto a tempo indeterminato vede in televisione un padrone col maglioncino che gli sfila i diritti da sotto i piedi, il sindaco (sedicente di sinistra) che va a giocarci a scopetta e prega il proprio partito di affiancarsi alla battaglia padronale. Porta il figlio in una scuola dove i suoi compagni sono così tanti che la maestra ci mette un mese per imparare i nomi, una scuola che funziona solo per l’impegno degli insegnanti che non hanno ancora mollato, che non sono ancora scoppiati per l’umiliazione continua alla quale sono esposti. Un lavoratore è precario non solo per la precarietà del suo lavoro, ma soprattutto perché sono precari la scuola, la casa, l’assistenza sanitaria, i trasporti, l’informazione, la cultura, il cibo che mangia e l’acqua che beve, l’energia che consuma e i vestiti che indossa.

Invece io dico che la scuola è solo pubblica. Continued…

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Pisa: da qui può iniziare la solidarietà

Pubblichiamo un report che abbiamo scritto ieri, di ritorno da San Piero a Grado e che abbiamo postato anche sul blog di Femminismo a Sud.

Alcuni compagni e alcune compagne si sono recate a San Piero a Grado per stabilire un primo contatto con i ragazzi attualmente reclusi in un ex edificio dell’università. Vogliamo pertanto raccontarvi come è stato iniziare a conoscersi anche se per ora attraverso una recinzione di filo spinato che ancora non siamo riuscit* ad abbattere.

Oggi (ieri per chi legge ndr) è una bellissima giornata, di quelle primaverili in cui è piacevole prendere la bici per una passeggiata all’aria aperta.

Partiamo in quattro, da Pisa, con due bici e un tandem, alla volta di San Piero a Grado, c’è il sole e un po’ di vento che ci accompagna.

Abbandonata la strada che va verso il mare, evitando i camion e i suv che ci suonano, imbocchiamo una strada sempre più piccola, polverosa, che taglia in due i campi pisani, per chilometri.

Di abitazioni non ce ne sono quasi, ce le siamo lasciate alle spalle da un po’, solo ogni tanto si incontra un cascinale, nella campagna. In tutto facciamo quasi 10 km.

Dopo mezz’ora circa arriviamo all’edificio dell’Università che è stato adibito a Centro di accoglienza profughi.

La prima impressione è che, nonostante il posto sembri abbastanza accogliente, è comunque parecchio isolato rispetto alla città di Pisa e che sarà difficile per i migranti spostarsi senza una bici.

Scendiamo e cerchiamo di entrare nel Centro, ma la Municipale ci dice che non abbiamo il permesso, per entrare dobbiamo chiederlo al Prefetto e che se vogliamo possiamo restare, ma fuori dal cancello.

Ci spostiamo di due metri, mentre una di noi fa notare che è piuttosto ridicolo questo spostamento; fuori dalle reti e dal filo spinato quelli che ci vengono incontro dall’altra parte sono una decina di volti incuriositi.

Il primo ragazzo che ci parla è Tamer (chissà se lo stiamo scrivendo bene) che ha una ventina di anni ed è musicista, spiega che sa suonare una serie di strumenti musicali e ci chiede anche se gli possiamo portare un quaderno, per comporre (rap, cosa ascolti di rap?) e una chitarra, perchè a stare nel centro tutto il giorno ci si annoia. Ci scambiamo un sacco di domande, loro in un francese molto migliore del nostro, ci facciamo raccontare del viaggio e loro ci chiedono in che parte dell’Italia siamo e quanto distano i confini e le altre grandi città italiane. Disegnamo una mappa su un foglio indicando la Francia, Pisa e Lampedusa.

Al sentir pronunciare Lampedusa, parte un coro di Noooo!!!

Non vogliono neppure sentirla nominare, quell’isola.

Ci raccontano che lì non se la sono passata molto bene: dopo un lungo viaggio costato molto (circa mille euro a persona) stipatissimi su una barca molto piccola, in cui erano tutti uomini -circa trecento- tranne due donne, riuscire a sbarcare è stato lungo e difficile, sull’isola, dove hanno trascorso quindici giorni, hanno camminato parecchio e poi sono giunti alla montagna, dove hanno dormito su teli di plastica all’aperto, in terra, il cibo era pessimo, vecchio, hanno sempre dovuto camminare tanto (infatti uno di loro aveva male ad un piede per lo sforzo e stava aspettando l’ambulanza che lo sarebbe venuto a prendere nel pomeriggio), pochi sono riusciti a farsi una doccia, soltanto grazie all’ospitalità dei lampedusani, perché non erano statepredisposte.

Il viaggio da Lampedusa a Pisa è durato 4 giorni e ci sembra troppo tempo; quando chiediamo ci spiegano che sarebbe stato molto meno se la nave su cui erano non fosse stata continuamente rimpallata per cambiare direzione: mentre salivano a Nord sono stati respinti verso il Lazio, ci sembra di capire perchè c’erano navi della marina militare che impedivano il passaggio, quindi hanno fatto una prima tappa ad Ostia, ma Roma non è stata ospitale e solo alcuni scelti arbitrariamente si sono potuti fermare, gli altri sono stati mandati via e sono sbarcati mercoledì scorso a Livorno. Continued…

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Precarie e precari, protesta in corpo

Dal blog di Diversamente Occupate, un post interessante di Teresa Di Martino, in attesa della manifestazione del 9 aprile. Buona lettura!

Precarie e precari, protesta in corpo

di Teresa Di Martino
07/04/2011

Un caldo pomeriggio d’ottobre, mentre guardavo tre donne fare irruzione in un grattacielo abbandonato e arrampicarsi fino in cima per esporre al mondo uno striscione che rivendicava i loro diritti, diritti di lavoratrici, ho pensato che la loro presa di parola fosse “violenta” e “pericolosa”. Un mese fa una scena simile: tre uomini che sventolavano le loro bandiere, bandiere di diritti, sopra la gru di un cantiere edile bloccato.

Dopo pochi giorni mi sono ritrovata sul tetto di un mobilificio in fallimento, con decine di donne sedute sul cornicione a “vegliare” sul loro striscione, anch’esso rivendicante, esposte al vento e al freddo di un inverno poco generoso. Mentre le guardavo pensavo che se in passato le rivendicazioni del mondo del lavoro passavano per la rappresentanza, oggi passano dai corpi, spesso corpi di donne.

E non succede solo perché la rappresentanza al lavoro ha perso di senso, c’è di più, qualcosa di più profondo ed inquietante: la solitudine. E’ questa la condizione materiale e simbolica che vivono oggi molte lavoratrici e molti lavoratori, soli nel lavoro, soli nella contrattazione, soli nella rivendicazione. E’ una condizione che la mia generazione ha conosciuto e conosce come esclusiva: per molte e molti il lavoro è sommerso, precario, non garantito, pagato poco, negoziato faccia a faccia con il datore di lavoro, isolato, da casa, con una camera da letto trasformata in ufficio e un pc come finestra sul mondo.

E alla differenza generazionale si aggiunge quella sessuale: donne discriminate, nella precarietà. Le giovani donne, più istruite degli uomini, flessibili, multitasking, portate al lavoro di “cura del prodotto”, responsabili, sono proprio quello che il mercato cerca (basta leggere un qualsiasi annuncio di stage/lavoro), quello stesso mercato che provvede poi, puntualmente, a discriminarle, a pagarle meno, a fargli firmare dimissioni in bianco, a respingerle quando sono in età da maternità. Continued…

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L’accoglienza diffusa e il modello toscano

Un post pubblicato da Lucha su Femminismo a Sud, che analizza in prospettiva l’evoluzione del modello di accoglienza toscano. Un buono spunto per un dibattito costruttivo sulla questione.
Buona lettura!

La mappa dei centri di accoglienza aperti e previsti in Toscana

La mappa dei centri di accoglienza aperti e previsti in Toscana

Sette giorni sono passati, da quando è arrivata la notizia, nella serata di martedì 29 marzo, che il governo aveva intenzione di trasferire circa un migliaio (poi diventati 500) migranti da Lampedusa in una ex-base radar americana a Coltano, Pisa. In questi 7 giorni tante cose sono cambiate, gli eventi si sono susseguiti vorticosamente: è il momento di fermarsi a riflettere su ciò che è successo, perché è forte il sospetto che ci sia difficoltà a comunicare cosa sta succedendo in una delle roccaforti del PD.

Premessa necessaria

In Toscana non ci sono Centri di Identificazione ed Espulsione – CIE, i tristemente noti CPT della Turco-Napolitano. Ma già nel 2003 i responsabili per l’immigrazione del ministero degli Interni dicevano: ”così come in ogni città c’è un carcere, una prefettura, una questura, la gente dovrà abituarsi all’idea che ci sia un centro di permanenza”. Nel 2010 alle elezioni regionali in toscana vinse, com’era prevedibile, il candidato del centro-sinistra del Partito Democratico Ernico Rossi. Nel programma elettorale di Rossi era prevista la creazione di CIE in Toscana, anche se -si diceva- non si volevano “i CIE di Maroni”, ma dei CIE rispettosi dei diritti umani, gestiti dal volontariato cattolico. L’assurdità di creare centri di identificazione ed espulsione che fossero rispettosi dei diritti umani sembrò paradossale a molti, che hanno combattuto da sempre contro la creazione di nuovi centri. Rifondazione Comunista, che in Toscana aveva -ed ha- ancora un minimo di solidità della sua base, strinse un patto con Rossi. Una sorta di desistenza, dato che non presero posizione sulla questione dei CIE, di fatto accettando l’impostazione del futuro presidente. Anche questo fece grande rumore nei circoli e nella base, e proprio a Pisa il segretario del circolo di uno dei storici quartieri operai e popolari annunciò che non avrebbe votato per il suo partito, e che -secondo statuto- avrebbe dovuto essere espulso di conseguenza. Continued…

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Solidarietà a* giornalist* aggredit* a Calambrone!

Il Comitato Donne 13 Febbraio_Pisa esprime la sua solidarietà alle giornaliste e ai giornalisti e aggredit* in data odierna dai manifestanti al presidio di Calambrone .

Riteniamo inaccettabile la violenza della protesta dei manifestanti diretta sia contro l’arrivo dei profughi sia contro chi svolge il proprio lavoro di documentazione, a beneficio di tutta la comunità.

Verifichiamo con sconcerto come anche in questa situazione si preferisca la strategia dell’autoritarismo, della forza e della violenza al dialogo, che permetterebbe invece di dare voce alle proprie istanze e discuterle in maniera civile e pacifica.

Non possiamo non vedere in questo episodio l’ennesima espressione della violenza patriarcale basata sul dominio e sulla prepotenza. Le facili offese rivolte in particolar modo alle donne ci disgustano: comunista di m* e tro*, come se il segno della diversità politica, d’altronde presunta, fosse sinonimo di prostituzione.

Rileviamo inoltre l’assenza di un argine da parte delle forze dell’ordine alla prevaricazione che ha costituito una palese violazione del diritto di cronaca: anche se comprendiamo e apprezziamo la volontà di non ricorrere all’uso della forza per garantire l’ordine e di non esasperare le contrapposizioni, riteniamo che questo non possa significare la mancanza di tutela effettiva di coloro che garantiscono l’informazione e di azioni atte a far cessare immediatamente insulti e prepotenza, per altro a senso unico.

Riteniamo che anche in previsione dell’arrivo dei migranti, nessun* debba sentirsi legittimat* a ricorrere impunemente all’abuso.

E’ d’altra parte necessario che le istituzioni ribadiscano come non vi sia alcuna emergenza da fronteggiare e non siano reali gli allarmismi che vengono creati ad hoc per giustificare una politica di tipo repressivo ed intollerante, affinché non prevalga l’ ostilità derivante dalla paura.

Riteniamo l’accoglienza un valore insindacabile e che come cittadin* antirazzist* vogliamo ribadire il nostro benvenuto ai ed alle migranti. Siamo pront* a fare rete per garantirne i diritti e perché vengano sostenute politiche di accoglienza e pluralità all’interno del tessuto sociale, contro ogni ipotesi di creazione di luoghi di esclusione e violenza come i CIE.

Crediamo inoltre che sia importante che tutta la città di Pisa sia solidale perché sarà nostra precisa responsabilità come verranno accolt* e trattat* i e le migranti in arrivo, cosa che non riguarderà soltanto Calambrone.

Sollecitiamo, in conclusione, una risposta dalle Istituzioni di Pisa e dalle Forze dell’ordine sui fatti che denunciamo.

Comitato Donne 13 Febbraio_Pisa

 

Pisa, 4 Aprile 2011

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Comunicato sul coinvolgimento militare delle forze NATO in Libia

Il ‘Comitato Donne 13 febbraio_ Pisa’ esprime forte preoccupazione sul coinvolgimento militare delle forze Nato (con alcune rilevanti eccezioni) nella situazione libica e invita tutta la città, il suo forte tessuto democratico, le associazioni, i partiti politici, le organizzazioni sindacali, le chiese locali, le donne e gli uomini a discutere collettivamente e a non dare per scontata l’apertura, sulle sponde del Mediterraneo, di un ennesimo fronte di guerra.

Se è vero infatti che la grave preoccupazione era già esistente e riguardava la guerra civile che attraversa la Libia dall’11 febbraio, con la risposta irresponsabile e feroce di Gheddafi all’insurrezione, risposta che ha assunto i caratteri di un vero e proprio massacro, se è vero inoltre che l’intervento, dapprima francese, poi Usa e Gb e infine italiano si è mosso in seguito alla risoluzione Onu 1973/2011 che “autorizza gli stati membri… a prendere tutte le misure necessarie… a proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacco nella Jamahiriya Araba di Libia, compresa Bengasi, escludendo l’ingresso di una forza di occupazione straniera in qualsiasi forma e in qualsiasi parte del territorio libico”, è altrettanto vero che la cornice di “legalità” internazionale con cui si normalizza questa guerra aerea senza limiti non è certo sufficiente né a tacitare i fondati timori che l’innesco dell’intervento militare non sia controllabile quanto a esiti, costi di vite umane, natura e dimensioni, né, tantomeno , il dissenso che verte sul fatto che, ancora una volta, la strada dei bombardamenti appare ridurre drasticamente la prospettiva auspicabile di una larga trattativa diplomatica internazionale, prospettiva ormai archiviata con l’annunciata assunzione del comando politico e militare delle opeazioni da parte della NATO. Il vescovo di Tripoli monsignor Martinelli si è chiesto se non si sia intrapresa la via militare “troppo in fretta”, e afferma che precipitandosi ad usare la violenza si è dato il via ad un gioco sbagliato. Mentre Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda e Spagna bombardano, l’esodo di massa dei profughi verso i paesi vicini avviene sull’onda della disperazione senza trovare l’argine e il sostegno di forze capaci di diplomazia e mediazione. E si allarga il numero e il peso strategico dei paesi contrari all’intervento armato: fin dall’inizio Cina, Russia e Germania hanno espresso chiaramente il loro dissenso. La preoccupazione è che la crisi si attorcigli in una guerra lunga ove le finalità “umanitarie”, la salvaguardia della vita della popolazione, secondo il testo della risoluzione dell’Onu, finiscano in fondo alla fila di interessi molteplici e non sempre chiari.

E ancora oggi, come ha scritto la Tavola della pace, in un comunicato che condividiamo totalmente, “mentre si interviene in Libia non si dice e non si fa nulla per fermare la sanguinosa repressione delle manifestazioni in Baharein, nello Yemen e negli altri paesi del Golfo. L’Italia e l’Europa, prima di ogni altro paese e istituzione, devono mobilitare ogni risorsa disponibile a sostegno di chi si batte per la libertà e la democrazia”.

Crediamo che una sola sia la strada che l’Italia deve percorrere: fermare l’escalation della guerra, ridare la parola alla politica, promuovere il negoziato a tutti i livelli per trovare una soluzione pacifica e sostenibile.
Evitare la possibilità di nuove stragi di civili come è avvenuto in Iraq e in Afghanistan, come abbiamo visto nei Balcani. Abbiamo una serie infinita di prove dell’ enorme menzogna che spaccia le guerre per interventi umanitari. L’Italia non deve ripetere, a cent’anni dall’aggressione colonialista, un attacco militare a un paese nel quale ha provocato a suo tempo la morte di 100mila persone, un ottavo della popolazione libica. Per la memoria, dobbiamo dire di no. E per il presente: quale triste epilogo sarebbe, nella repressione e nel sangue, per le primavere nel mondo arabo?
Citiamo ancora la Tavola della Pace per chiedere che l’Italia diventi “il crocevia dell’impegno europeo e internazionale per la pace e la sicurezza umana nel Mediterraneo. Per questo l’Italia non doveva e non deve bombardare. Per questo deve cambiare strada. Subito”.

Pisa, 25 marzo 2011

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